"Dal sacro Monte Kailash, nel Transhimalaya, oltre la linea delle piogge, discesi all'estremo del Capo Comorin, dove le acque di tre antichi mari si congiungono. Ed oggi so che in ambo gli estremi vi sono templi". (Miguel Serrano)

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personaggi & personaggi

 
Grigorij Efimovič Rasputin 1869 ca.-1916

Giacché lo chiamarono Grigorij nacque verosimilmente a gennaio, ma nessuno saprà mai di che anno, in un villaggio della più piatta e squallida, infinita Siberia. Suo padre aveva dodici mucche, otto cavalli, beveva a litri la vodka e nelle sere d’inverno gli leggeva il Vangelo. Il fratello morì di polmonite dopo che assieme erano quasi annegati in un fiume. Si accorsero che Grigorij aveva il dono di vedere quello che è agli altri celato, perché se qualcuno rubava nel villaggio qualcosa, lui ogni volta sapeva dov’era nascosto. Diceva di parlare ai cavalli: ed essi gli ubbidivano. Prima dei vent’anni sposò una bionda dagli occhi neri, mite, incapace di lagnarsi. Lui conduceva i carri, pescava e arava: tutte cose buone per un contadino. Ubriaco correva dietro ai cavalli nei campi, amava le risse e le parolacce. A rubare fieno e legna era molto a suo agio, facile ad ogni genere di orge ed eccessi. Non di rado veniva sorpreso e bastonato. Mai i contadini della Siberia erano stato servi della gleba, e vivevano in liberi villaggi, dove gli anziani erano giudici: per poco, una volta, non lo deportarono nella Siberia orientale. E così tra bevute, cavalli e arature, Rasputin viveva, finché ventottenne partì pellegrino per un monastero vicino a Ekaterinburg. Disse che gli era apparsa la Madonna di Kazan’, ma secondo il padre ci andava per non lavorare. Tornò al villaggio senza berretto, con i capelli sciolti: non cessava di cantare e gesticolare mentre camminava, lanciando occhiate selvagge. Nelle foreste viveva il vegliardo anacoreta Makarij: gli disse che Dio l’aveva prescelto per grandi opere e lo mandò in pellegrinaggio a Gerusalemme. Grigorij ritornò poi in Russia e per dieci anni visitò chiese, eremi e santi. Nel 1902 scomparve di casa per due anni; ma di norma rientrava l’estate per i lavori agricoli: gli nacquero quattro figli. Scavò una buca nella stalla per farne un oratorio; Rasputin cantava con tristezza misteriosa e infinita. Non si lavava da anni, ma radunò gruppi di preghiera, praticando saune di gruppo con le “sorelle”, come le chiamava. Erano donne di ogni origine, persuase della sua santità, che tra l’altro gli si buttavano continuamente addosso per baciarlo e così santificarsi. Anche più tardi, divenuto famoso a San Pietroburgo, scanserà le vecchie e bacerà solo le giovani. Secondo Rasputin il demonio non alloggiava nel cuore delle donne, né bastavano solo preghiere; localizzava il demonio più in basso e gli dedicava altri strumenti di lotta. Dopo si prosternava con la consueta, innaturale precipitazione. Eppure mostrò d’indovinare i segreti, e guariva non pochi. Era un depravato santo. A lui analfabeta, vescovi, asceti chiedevano di spiegar loro i Vangeli. Nel 1904, già in fama di starec, arrivò in una San Pietroburgo torbida e snervata dalla guerra con il Giappone. Fu la moglie serba del granduca Nicola, fornitrice di santi e occultisti, che lo presentò a Carskoe  Selo allo zar e alla zarina. Quasi a ogni passo Rasputin si curvava, premendo tra loro febbrilmente le mani. Aveva una faccia cotta dalle intemperie, grossa, triangolare, ossuta, con un gran naso e le sopracciglia sempre aggrottate, sopra ad occhi grigio acciaio, ipnotici, astuti anche quando erano buoni, crudeli nell’ira. Parlava a bassa voce come un sacrestano, dicendo aforismi, tirandosi enigmatico la barba che era come una pelle di pecora. Eppure piaceva ai bambini e agli animali. Bastava che fosse presente perché le emorragie del figlio emofiliaco dello Zar subito si arrestassero. Né era venale, e tantomeno ipocrita; parlava franco e chiamava Nicola II “babbo” e “mamma” la Zarina. E lo Zar diceva di sentire in lui la Russia , oceano di enigmi e di celeste semplicità; discorrerci, piangerci insieme lo rassicurava. Tanta intimità e i molti peccati di Rasputin basterebbero a spiegare le gelosie di tutti, le sue alterne fortune. Ma Vitte, il miglio primo ministro che mai ebbe la Russia, lo elogiava: “Conosce meglio di chiunque la Russia, il suo spirito, i suoi umori e i suoi fini storici. Sa tutto questo per una sorta di fiuto…”. E nel 1914 Rasputin avvertì lo Zar: “Nessuna stella più in cielo… Un oceano di lacrime… So che tutti pretendono la guerra, anche i più fedeli. Non sanno di correre come cavalli furiosi nell’abisso… La nostra patria mai ha patito un martirio come quello che ci attende. La Russia affogherà nel proprio sangue”. Era contro la guerra. Due settimane dopo l’attentato di Sarajevo provvide una scriteriata: gli infilò un coltello nella pancia, gridando d’aver ucciso l’Anticristo. Il possente fisico di Rasputin si riprese; egli imprecò, derise i nobili e il presidente della Duma, il grassone Rodzianko. Nel 1916, dopo l’ecatombe estiva di un milione di soldati russi, Rasputin protesse anche gli intrighi del ministro Protopopov: appoggiò il suo incontro a Stoccolma con i tedeschi per sondare le possibilità d’una pace separata. Allora dispiacque alla Duma, alla Corte e all’ambasciatore inglese. E così il degenerato principe Jusupov la notte del 16 dicembre lo invitò a casa sua, promettendogli una gozzoviglia. Rasputin arrivò quella notte dal principe e si divertì come un bambino a far scattare i cassetti di un piccolo scrigno. Rifiutò all’inizio i biscottini che Jusupov gli offrì; ma poi ne mangiò. Erano al cianuro; ma non ebbero effetto. Il principe allora gli versò del madera in un bicchiere spalmato di veleno. Riuscì dopo a fargli bere altri due o tre simili bicchieri; ma lo starec seguitava indifferente ad aggirarsi nella sala. D’un tratto anzi Rasputin lo fissò con uno sguardo di odio assoluto, e il femminino Jusupov quasi svenne. Rasputin gli disse, facendogli l’occhietto, che gli piaceva la sua voce, e di suonate la chitarra. Il principe allora gli sparò alla schiena. Cadde. Ma mentre cogli altri congiurati Jusupov si felicitava, Rasputin, la bava alla bocca, s’alzò in piedi: con un urlo selvaggio e le dita contorte gli finì addosso. Dovettero pure manganellarlo. Gli spararono altre quattro volte. Quando lo buttarono nel fiume era ancora vivo. Morì sotto il ghiaccio, ma solo dopo essersi liberato dalle corde.

(Geminello Alvi, Uomini del Novecento ADELPHI pagg. 77-81)