"Dal sacro Monte Kailash, nel Transhimalaya, oltre la linea delle piogge, discesi all'estremo del Capo Comorin, dove le acque di tre antichi mari si congiungono. Ed oggi so che in ambo gli estremi vi sono templi". (Miguel Serrano)

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- sabato 20 e domenica 21 giugno il Comitato Centrale si riunisce a Tivoli

- venerdì 23 maggio 2014 è stata stipulata la Convenzione SNAMI Campania-Club Medici che, tra i vari servizi, offre una polizza assicurativa per la responsabilità civile professionale

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spigolature

Howard Phillips Lovecraft 1890-1937

I gatti di Ulthar

      Si dice che a Ulthar, oltre il fiume Skai, non si possono uccidere i gatti, e mentre guardo la bestiola accoccolata a far le fusa davanti al caminetto, non ho nessun motivo per dubitarne. Enigmatico, il gatto è affine a quelle strane cose che l’uomo non può vedere. È lo spirito dell’antico Egitto, depositario dei racconti a noi giunti dalle città dimenticate delle terre di Meroe e Ophir. E parente dei signori della giungla, erede dell’Africa oscura e feroce. La Sfinge è sua cugina, e lui parla la sua lingua; ma il gatto è più vecchio della Sfinge, e ricorda ciò che lei ha dimenticato.
      A Ulthar, prima che i cittadini proibissero l’uccisione dei gatti, vivevano un anziano contadino e sua moglie, i quali si dilettavano a intrappolare e ammazzare i gatti dei loro vicini. Non so immaginare i motivi di questo peculiare passatempo, oltre al fatto che molte persone non sopportano i miagolii notturni dei gatti e non vedono di buon occhio il fatto che all’imbrunire si aggirino furtivamente nei giardini e nei cortili. 

     Ad ogni modo, qualunque fosse la ragione, fatto sta che questo vecchio e sua moglie provavano un morboso piacere nel catturare e uccidere ogni gatto che si avvicinasse al loro tugurio. Inoltre, a giudicare dai rumori che si udivano dopo il tramonto, molti degli abitanti di Ulthar erano propensi a ritenere che il modo in cui i due coniugi uccidevano le malcapitate bestiole fosse assai particolare. Tuttavia, di ciò gli abitanti del villaggio non ragionavano mai con i due anziani, Scoraggiati dall’espressione che abitualmente vedevano sulle loro facce avvizzite, e dal fatto che la loro abitazione, una minuscola catapecchia, sorgesse sul retro di un terreno abbandonato, racchiuso nel folto di un querceto che la celava quasi totalmente alla vista.
      I proprietari di gatti detestavano quella strana coppia, ma la paura che quei due incutevano superava l’odio. Di conseguenza, anziché ammonirli e trattarli come brutali assassini, si limitavano a impedire con estrema attenzione che un amato gattino domestico o selvatico predatore di topi si aggirasse intorno alla solitaria bicocca sotto gli alberi oscuri. Quando, però, per una inevitabile distrazione, un gatto spariva e si udivano i ben noti rumori al calare del buio, il proprietario della bestiola scomparsa non poteva far altro che lamentarsi impotente, o consolarsi ringraziando il fato che a sparire non fosse stato uno dei suoi figlioli. Perché gli abitanti di Ulthar erano gente semplice, e nulla sapevano sull’origine e la provenienza dei gatti.
      Accadde un giorno che una carovana di strani nomadi delle terre del sud giungesse nelle strade acciottolate di Ulthar. Avevano la pelle scura, ed erano diversi dagli altri girovaghi che attraversavano il villaggio due volte all’anno. Predissero la sorte per una moneta d’argento nella piazza del mercato, e acquistarono collane colorate dai mercanti. Nessuno sapeva immaginare da quale paese provenissero questi curiosi stranieri. Alcuni li udirono recitare strane preghiere, e non si tardò a notare le strane raffigurazioni dipinte sui fianchi dei loro carri: esseri dal corpo umano e la testa di gatto, falco, ariete o leone. Il capo della carovana portava un copricapo dal quale spuntavano due corna, e tra queste campeggiava un curioso disco.
      Tra i vagabondi della singolare carovana faceva spicco un ragazzino, orfano di entrambi i genitori, la cui sola compagnia era un piccolo micetto nero per il quale mostrava tenero affetto. La peste non era stata indulgente con lui, fortunatamente gli aveva lasciato quel grazioso batuffolo di pelo ad alleviare la sua tristezza; e si sa, quando si è piccoli è facile trovare conforto nelle simpatiche moine di un gattino nero. Cosicché, il ragazzino, che quei nomadi dalla pelle scura chiamavano Menes, passava più tempo a ridere che a piangere quando sedeva a giocare col suo grazioso micino sulla scaletta di un carro adorno di quegli Strani disegni.
      La mattina del terzo giorno trascorso a Ulthar dai girovaghi, Menes non trovò il suo gattino. Scoppiò in singhiozzi, e sentendolo piangere così forte nella piazza del mercato, alcune persone gli raccontarono del vecchio e di sua moglie, e dei rumori che si sentivano di notte. Nell’udire quei racconti, Menes smise di piangere e prese a riflettere, poi cominciò a pregare. Alzò le braccia verso il sole e pregò in una lingua che suonò incomprensibile a tutti. In verità, nessuno si sforzò di capire ciò che diceva, in quanto l’attenzione dei presenti era rivolta al cielo e alle strane forme che le nuvole andavano assumendo. Si trattò di un fenomeno stranissimo: mentre il ragazzo mormorava la sua supplica, sembravano prender forma nel cielo nebulose figure di creature esotiche, ibridi esseri coronati da dischi a due corna. La Natura abbonda di illusioni che impressionano la fantasia.
      Quella notte i girovaghi lasciarono Ulthar per non farvi mai più ritorno. E una sottile inquietudine assalì i cittadini allorché si accorsero che in tutto il villaggio non vi era più un solo gatto. Da ogni focolare la domestica bestiola era sparita senza lasciar traccia: gatti grossi e piccini, neri, grigetti, tigrati, gialli e bianchi. Il vecchio Kranon, il califfo, accusò i nomadi dalla pelle nera di aver rapito tutti i gatti del villaggio per vendicare l’uccisione del gattino di Menes, e maledì la carovana e il ragazzino.
      Ma Nith, il magro notaio del paese, reputava assai più sospettabili il vegliardo e la moglie, giacché l’odio di quei due per i gatti era ben noto a tutti, e diventava sempre più sfrontato. Ciò nondimeno, nessuno osò protestare apertamente contro la sinistra coppia; neppure quando il piccolo Atal, il figlio del locandiere, giurò di aver visto tutti i gatti di Ulthar radunarsi al tramonto nel campo maledetto nascosto dalle querce. Non solo; li aveva visti sfilare lentamente in circolo intorno alla capanna, in fila per due, come se stessero celebrando un misterioso rito bestiale. Gli abitanti di Ulthar non potevano dar credito alle parole di un ragazzino, ed erano propensi a credere che la malvagia coppia avesse ucciso tutti i gatti con qualche sorta di misterioso incantesimo; ciò nonostante preferirono non affrontare il vecchio finché non lo avessero avuto a tiro fuori dal suo cortile buio e repellente.
      E così Ulthar andò a dormire con la sua rabbia impotente, e quando all’alba si risvegliò — prodigio! Tutti i gatti erano ritornati al loro focolare domestico. Grossi e piccini, neri, grigi, tigrati, gialli e bianchi, non ne mancava neanche uno. A guardarli apparivano belli grassi e col pelo più lucido che mai, e tutti facevano le fusa manifestando gioia e soddisfazione.
      I cittadini si confidarono il fatto a vicenda, non senza una buona dose di stupore. Il vecchio Kranon insistette nuovamente nella sua convinzione che a rapirli fossero stati i girovaghi dalla pelle scura, giacché non era mai successo che un gatto ritornasse vivo dalla casa del vecchio e di sua moglie. Tutti, però, concordavano su una cosa: il rifiuto dei gatti di mangiaré la loro porzione di carne o di bere la loro ciotola di latte era davvero strano. E per due giorni interi gli oziosi e lucidi gatti di Ulthar non vollero toccar cibo, ma soltanto sonnecchiare al sole o in casa davanti al caminetto.
      Ci volle un’intera settimana perché gli abitanti di Ulthar notassero che al calar della sera nessuna luce brillava alle finestre della casupola in mezzo agli alberi. Allora il magro Nith osservò che nessuno aveva più visto il vegliardo e sua moglie dalla notte in cui erano scomparsi i gatti.
      Passò un’altra settimana e fu allora che il califfo decise di vincere le sue paure e di recarsi alla dimora stranamente silenziosa, ottemperando al suo dovere. Nel farlo, però, agì con prudenza portando con sé Shang il fabbro e Thul il tagliapietre in qualità di testimoni. E quando buttarono giù la fragile porta, quel che trovarono fu esattamente questo: due scheletri umani sul pavimento minuziosamente spolpati e una quantità di strani scarafaggi che Strisciavano negli angoli bui.
      Ci fu un gran parlare tra la gente di Ulthar dopo questa scoperta. Zath, il medico, discusse a lungo con Nith, il magro notaio; e Kranon, Shang e Thul furono tempestati di domande. Persino il piccolo Atal, il figlio del locandiere, fu sottoposto a un serrato interrogatorio, e infine ricompensato con qualche dolciume. Si parlò del vecchio contadino e di sua moglie, della carovana di girovaghi dalla pelle scura, del piccolo Menes e del suo gattino nero, della preghiera di Menes e di come era apparso il cielo durante la preghiera, di come si erano comportati i gatti la notte della partenza della carovana e di ciò che successivamente fu scoperto nella casa sotto gli alberi fitti del cortile repellente.
      E fu così che infine gli abitanti della città promulgarono quella singolare legge di cui parlano i commercianti di Hatheg e discutono i viaggiatori di Nir, e cioè che nella città di Ulthar è vietato uccidere i gatti.

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Adriano Visconti di Lampugnano (Tripoli, 11 novembre 1915 – Milano, 29 aprile 1945) è stato un militare italiano. Fu, insieme a Franco Lucchini, il miglior asso dell'aviazione italiana durante la seconda guerra mondiale. Comandante del 1º Gruppo caccia "Asso di bastoni".


     Adriano Visconti di Lampugnano nacque a Tripoli, figlio di Galeazzo Visconti di Lampugnano e Cecilia Dall'Aglio, emigrati in Libia in seguito all'occupazione italiana del 1911. Si arruolò nella Regia Aeronautica come allievo del Corso REX della Accademia Aeronautica il 21 ottobre 1936 e conseguì il brevetto di pilota militare presso la scuola d'aviazione di Caserta. Proseguì il suo addestramento sul Breda Ba.25 e sull'IMAM Ro.41 e, nel 1939, fu assegnato alla 159ª Squadriglia del 50º Stormo d'Assalto (reparto specializzato nell'attacco al suolo).
     Nel giugno del 1940, allo scoppio della guerra, Visconti fu trasferito con il suo reparto in Africa settentrionale, presso l'aeroporto di Tobruk, dove combatté volando sui Breda Ba.65 e sui Caproni Ca.310. Nel periodo giugno-dicembre 1940 fu decorato con due Medaglie di Argento al Valor Militare ed una Medaglia di Bronzo.
     Nel gennaio 1941 Adriano Visconti fu trasferito alla 76ª Squadriglia del 54º Stormo Caccia Terrestre dove venne addestrato al volo sul caccia Macchi M.C.200, svolgendo poi servizio operativo sull'isola di Malta e nei cieli africani con il Macchi M.C.202. Il 29 aprile 1943, nel corso dell'ultimo grande scontro aereo prima della caduta della Tunisia, l'allora tenente Visconti guida dodici Macchi M.C.202 del 7º Gruppo all'attacco di sessanta tra Supermarine Spitfire e Curtiss P-40. Visconti abbatte un P-40 e altri quattro sono accreditati ad altri piloti del 54º Stormo.
     Visconti è proposto per la concessione di una Medaglia d'Argento al valor militare che verrà concessa il 10 giugno 1948, tre anni dopo l'assassinio dell'asso italiano. [1]
     In seguito, promosso al grado di capitano, divenne comandante della 310ª Squadriglia Caccia Aerofotografica, specializzata nell'aero-ricognizione ed equipaggiata con Macchi M.C.205 in una speciale versione modificata a Guidonia.
     Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 Visconti aderì alla Repubblica Sociale Italiana e partecipò attivamente alla costituzione dell'Aeronautica Nazionale Repubblicana al comandando della 1ª Squadriglia e, dopo essere stato promosso al grado di maggiore nel maggio 1944, al 1º Gruppo caccia "Asso di bastoni".
     Fino alla fine della guerra Visconti combatté difendendo l'Italia settentrionale dagli attacchi dei bombardieri anglo-americani utilizzando diversi tipi di aerei: Macchi M.C.202, M.C.205 e Messerschmitt Bf 109G-10. Il primo combattimento su quest'ultimo tipo di velivolo ebbe luogo il 14 marzo. Visconti, comandante del 1º Gruppo, con altri 16 Messerschmitt, intercettò, sul lago di Garda, una formazione di B-25 Mitchell del 321th Bomber Group, che rientrava dopo il bombardamento del ponte ferroviario di Vipiteno. I P-47 Thunderbolt di scorta (del 350th Fighter Group) attaccarono a loro volta i Messerschmitt italiani. Nel corso del combattimento, Visconti attaccò frontalmente il Thunderbolt del 1/Lt. Charles C. Eddy, rivendicandone l'abbattimento, ma lo stesso comandante del 1º Gruppo fu colpito e ferito al volto dalle schegge del proprio parabrezza e costretto a lanciarsi. Il 15 marzo l'ANR attribuì a Visconti la vittoria e la segreteria inoltrò la pratica per richiedere il "Premio del Duce", le 5.000 che spettavano all'abbattitore di un monomotore. In realtà il P-47 dell'americano Eddy rientrò alla base di Pisa.[2]
     Il 29 aprile 1945, a Gallarate, Adriano Visconti firmò la resa del suo reparto, il 1º Gruppo caccia "Asso di bastoni" controfirmata da rappresentanti della Regia Aeronautica, del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), del Comitato di Liberazione Nazionale (CNL) e da 4 capi partigiani (tra i quali Aldo Aniasi "Iso", poi deputato e sindaco di Milano). L'accordo garantiva la libertà ai sottufficiali ed agli avieri del Gruppo, l'incolumità personale di tutti gli ufficiali, nonché l'impegno di consegnarsi alle autorità militari italiane o alleate, come prigionieri di guerra.
     I 60 ufficiali e 2 ausiliarie vennero condotti nella caserma del "Savoia Cavalleria", già sede dell'Intendenza della Guardia Nazionale Repubblicana allora occupata dalla brigate garibaldine Redi e Rocco. I prigionieri erano stati sistemati in un primo stanzone quando un partigiano ordinò a Visconti di seguirlo. Il sottotenente Valerio Stefanini, aiutante di Visconti lo seguì. Intornò alle 14:00, mentre gli ufficiali venivano condotti in un altro stanzone dove erano state approntate brande, furono udite due raffiche improvvise. Secondo l'attaché della Luftwaffe al Ministero dell'Aeronautica Repubblicana, colonnello von Ysemburg, allora presente, i due, Visconti e Stefanini, furono colpiti alle spalle da raffiche di mitra. Visconti fu finito con due colpi di pistola alla nuca. [3] Ai restanti prigionieri venne successivamente comunicate la notizia dell'avvenuta fucilazione. [4] [5].
     A sparare fu un partigiano di nazionalità russa, guardaspalle del partigiano "Iso", Aldo Aniasi, comandante della brigata garibaldina Redi. Venne incriminato e subito prosciolto in quanto considerato legittimo atto di guerra, essendo avvenuto prima del 8 maggio 1945, data della fine ufficiale delle ostilità in Europa.[6]
     Visconti fu sepolto nel Cimitero di Musocco a Milano nel campo 10, detto anche Campo dell' Onore, insieme a numerosi aderenti alla Repubblica Sociale Italiana caduti di quei tragici giorni, molti rimasti anonimi.


Riconoscimenti

Nel National Air and Space Museum di Washington (USA) è stata sistemata, su segnalazione dell'Ufficio Storico dell'USAF, una foto di Visconti come "asso" dell'Aeronautica italiana.
Nel 2010 è stato realizzato un documentario dedicato alla memoria di Adriano Visconti e Valerio Stefanini, dal titolo Volando con Visconti, per la regia di Claudio Costa. Nel film il tenente pilota Cesare Erminio, che combatté nell'Aeronautica Nazionale Repubblicana con Visconti, racconta la sua esperienza di guerra a fianco del suo amico e comandante. Negli extra del DVD c'è una testimonianza del fratello di Valerio Stefanini, Aldo, sulla morte di Visconti e del suo giovane luogotenente.
Nel 2011 è stato realizzato un documentario dal titolo Aquile senza corona diretto da Claudio Costa, dove un ex volontario nell'ANR, Mario Montano, racconta come conobbe Visconti a Campoformido. Nel documentario ci sono alcune sequenze molto rare di un film in 8 mm realizzato dal Tenente pilota Cesare Erminio nel periodo in cui era nel Primo Gruppo Caccia.


Abbattimenti


Gli sono accreditate 26 vittorie aeree:[7] 19 ottenute combattendo nella Regia Aeronautica (1940-1943) e 7 nell'Aeronautica Nazionale Repubblicana della Repubblica Sociale Italiana (1943-1945).

Onorificenze

Medaglia di bronzo al Valor Militare
«Ufficiale pilota di grande calma e sangue freddo, provato in numerose e rischiose ricognizioni e in audaci attacchi contro autoblinde nemiche, durante una missione bellica veniva attaccato da tre caccia nemici che danneggiavano gravemente il velivolo.
Con abile manovra atterrava su un campo di fortuna organizzando subito, con spirito combattivo, la strenua difesa dell'equipaggio.[8]»
— Cielo di Sidi Omar - Amseat - Sidi azeis, 11-14 giugno 1940


Medaglia d'argento al Valor Militare
«Pilota d'assalto, durante un'azione di spezzonamento e mitragliamento contro mezzi corazzati nemici, attaccato da numerosi velivoli, persisteva nell'azione sino al completo successo. Nonostante il rabbioso fuoco di un caccia che lo seguiva da presso, si addentrava in territorio avversario recando l'offesa contro altre autoblindo avvistate e riuscendo, con le ultime munizioni, a distruggerne una in fiamme. In successiva operazioni contro mezzi meccanizzati nemici riconfermava le ottime dote di combattente audace ed aggressivo, infliggendo al nemico gravi perdire e rientrando spesso alla base con il velivolo gravement colpito.[9]»
— Cielo della Marmarica, giugno - settembre 1940


Medaglia d'argento al Valor Militare
«Capo pattuglia di formazioni d'assalto lanciate, durante aspra battaglia, a mitragliare e spezzonare forti masse meccanizzate nemiche, partecipava con impetuoso eroico slancio a ripetute azioni a volo radente, contribuendo a distruggere ed a immobilizzare numerose autoblindo e carri armati avversari, più volte rientrando alla base con l'apparecchio colpito dalla violenta reazione contraerea. Alto esempio di coraggio, dedizione assoluta al dovere e superbo sprezzo del pericolo.[10]»
— Cielo di Sidi Barrani, Bug Bug, Fayres, 9 - 12 dicembre 1940


Medaglia di bronzo al Valor Militare
«Partecipava, quale pilota da caccia, alla luminosa vittoria dell'Ala d'Italia nei giorni 14 e 15 giugno nel Mediterraneo. Durante lo svolgimento di una battaglia navale si prodigava dall'alba al tramonto in voli d'allarme, di scorta e di ricognizione abbattendo un velivolo da combattimento avversario e recando preziose notizie sui movimenti delle unità navali nemiche.[11]»
— Cielo del Mediterraneo, 14 e 15 giugno 1942


Medaglia d'argento al Valor Militare
«Valoroso pilota da caccia, già distintosi in numerose azioni di guerra, durante un volo di scorta ad un apparecchio da ricognizione fotografica operante su unità navali nemiche, attaccava da solo quattro caccia avversari e, dopo vivacissimo combattimento, ne abbatteva due in fiamme e costringeva gli altri alla fuga, permettendo al ricognitore di svolgere regolarmente la sua missione.[12]»
— Cielo del Mediterraneo centrale, 13 agosto 1942


Medaglia d'argento al Valor Militare
«Valoroso comandante di squadriglia, già distintosi in precedenti periodi operativi, partecipava nel breve volgere di tempo durante l'attuale ciclo, a quattro violenti combattimenti nello svolgersi dei quali confermava le sue doti di abile e valoroso combattente e durante i quali abbatteva sicuramente un velivolo, uno probabile e ne danneggiava altri sei.
Il 29 aprile, mentre coi propri gregari faceva parte di una nostra esigua formazione attaccante oltre sessanta velivoli nemici da caccia, di protezione a bombardieri che tentavano un'azione contro naviglio nazionale, con indomito spirito aggressivo si lanciava sugli avversari e con il fuoco delle proprie armi ne sconvolgeva la formazione collaborando all'abbattimento di numerosi velivoli nemici ed alla realizzazione di una fulgida vittoria dell'Ala Italiana che veniva citata all'ordine del giorno.[13]»
— Cielo della Tunisia, 29 aprile 1943

NOTE


1. ^ Giuseppe Pesce con Giovanni Massimello. Adriano Visconti Asso di guerra. Parma: Albertelli Edizioni speciali s.r.l. 1997 pag.65-66
2. ^ "L'uomo che abbatté Visconti" di Ferdinando D'Amico e Gabriele Valentini - n. 3 del marzo 1989 di "JP4 Aeronautica", ripreso da Giuseppe Pesce e Giovanni Massimello in Adriano Visconti - Asso di guerra. Parma: Albertelli Edizioni 1997
3. ^ Giuseppe Pesce con Giovanni Massimello. Adriano Visconti Asso di guerra. Parma: Albertelli Edizioni speciali s.r.l. 1997 pag.130 e pag.132
4. ^ Alle 17:00 secondo Giorgio Pisanò "Gli ultimi in grigioverde" Edizioni CDL Milano 1967 pag.1404: "Verso le ore 17 un partigiano ci diede notizia della loro fucilazione. Da quanto si poté accertare in seguito fu possibile concludere che Visconti e Stefanini vennero trucidati con raffiche di fucile mitragliatore alle spalle mentre camminavano nel cortile della caserma. Visconti venne finito con alcuni colpi di pistola alla nuca.
5. ^ A notte secondo Pesce, Massimello, op.cit
6. ^ Giuseppe Pesce con Giovanni Massimello. Adriano Visconti Asso di guerra. Parma: Albertelli Edizioni speciali s.r.l. 1997 pag.130 e pag.132
7. ^ Nino Arena, Battaglie nei cieli d'Italia 1943 - 1945, Genova, Intyrama, marzo 1971.
8. ^ B.U.1940 - suppl.9 - pag. 11, cfr. Giuseppe Pesce; Massimello Giovanni, Adriano Visconti - Asso di guerra, Parma, Albertelli Edizioni - Collana "Storia militare", 1997. pag. 19
9. ^ B.U.1941 - disp.24 - pag. 942, cfr. Giuseppe Pesce; Massimello Giovanni, Adriano Visconti - Asso di guerra, Parma, Albertelli Edizioni - Collana "Storia militare", 1997. pag. 24
10. ^ B.U.1941 - suppl.13 - pag. 35, cfr. Giuseppe Pesce; Massimello Giovanni, Adriano Visconti - Asso di guerra, Parma, Albertelli Edizioni - Collana "Storia militare", 1997. pag. 29
11. ^ B.U.1943 - disp.24 - pag. 1472, cfr. Giuseppe Pesce; Massimello Giovanni, Adriano Visconti - Asso di guerra, Parma, Albertelli Edizioni - Collana "Storia militare", 1997. pag. 48
12. ^ B.U.1943 - disp.14 - pag. 864, cfr. Giuseppe Pesce; Massimello Giovanni, Adriano Visconti - Asso di guerra, Parma, Albertelli Edizioni - Collana "Storia militare", 1997. pag. 51
13. ^ B.U.1951 - disp.13 - pag. 978, cfr. Giuseppe Pesce; Massimello Giovanni, Adriano Visconti - Asso di guerra, Parma, Albertelli Edizioni - Collana "Storia militare", 1997. pag. 66


Bibliografia

• Ferdinando D'Amico - Gabriele Valentini, "L'uomo che abbatté Visconti", n. 3 del marzo 1989 di "JP4 Aeronautica"
• Giuseppe Pesce - Giovanni Massimello, Adriano Visconti - Asso di guerra. Parma: Albertelli Edizioni 1997 ISBN 978888590980
• Nino Arena, L'Aeronautica Nazionale Repubblicana, Albertelli Editore, 1995, ISBN 88-85909-49-3
• Giancarlo Garello. "Centauri su Torino" , Giorgio Apostolo Editori, 1998, ISBN 88-87261-04-0


(da http://it.wikipedia.org/wiki/Adriano_Visconti)






LA COSMOLOGIA CRUDELE DI ANASSIMANDRO

di md
(da http://mariodomina.wordpress.com)

«Principio degli esseri è l’infinito (àpeiron)… da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo».

     L’unico frammento compiuto rimastoci del successore di Talete ha tutta l’aria di essere una sentenza o la cifra un po’ criptica di una legge universale. Non v’è dubbio tuttavia che si tratti di una concezione squisitamente cosmologica.
    Apeiron, il senzaconfine, l’indeterminato, il caos primordiale, ciò che è in potenza tutte le cose, che ha in sé la possibilità inespressa dell’ordine, di tutte le cose è l’arché, il principio ordinatore. Lo studioso di filosofia antica Renato Laurenti ne dà la seguente etimologia: “quel che non può essere attraversato da una parte all’altra fino alla fine, non attraversabile, inesauribile”. Non solo: Anassimandro marca con questo concetto la differenza tra chrònos, tempo della generazione e della distruzione, e aiòn, il senza tempo, l’eterno che è proprio dell’àpeiron. Il ritorno al luogo di origine da parte di tutti gli esseri è vincolato da una necessità poderosa, la medesima necessità che è propria del negativo, cioè che non può non darsi, e che non a caso è associata ad un atto distruttivo. L’arco che si stende su questo percorso, sull’uscire dall’indeterminato e sul tornarvi, è la vera legge che domina l’universo, ed è propriamente il conflitto per la vita e per la morte che oppone gli enti, che li fa essere quel che sono, identità in opposizione l’una all’altra, e che solo in quanto si oppongono consistono.
    Sembra quasi che nel cosmo ordinato e determinato di Anassimandro non ci sia sufficiente spazio e che allora solo la guerra possa risolvere la disputa degli enti: ma non è una guerra di carattere umano, dove ciò che prevale è casualmente chi è più forte o furbo o fortunato, è semmai l’éris cosmica che ha un suo ordine logico (e temporale), e che non permette ad un ente di essere oltre i limiti consentiti e, soprattutto, non gli permette di bloccare la rotazione e la successione degli altri enti. La pena che così deve pagare per avere questa ingiusta pretesa di essere più del dovuto (più dell’ordine imposto dalle leggi universali) è infine la distruzione, il ritornare necessario nel luogo di origine, il tornare ad essere un nulla entro l’indeterminato.   Perché evidentemente è nella natura di ogni essere quella di imporsi in maniera determinata sull’indeterminato, di bloccare il flusso e di coagularsi in un’identità definita: ma questa sua presunzione e arroganza, la hybris che gli è connaturata, ha già in sé il prezzo da pagare, e insieme la pena e la sua espiazione, un prezzo che non è esclusivo di alcuni esseri ma che è di tutti gli esseri e che quindi ciascuno paga a tutti gli altri: la morte, il nulla. Affinché stia in piedi, il cosmo deve macinare tutti gli esseri che via via produce, come una bocca smisurata che divora i propri figli – meglio, che dispone affinché essi si divorino a vicenda: chrònos è così il tempo della generazione e insieme della distruzione, ciò che aiòn, l’eterno, che è la dimensione temporale propria dell’àpeiron, diviene nel suo manifestarsi sensibile.
     La temporalità degli esseri, il movimento delle cose che ha il suo punto di origine nell’indeterminato, è senza dubbio testimoniato dal distacco e dall’opposizione dei contrari: Anassimandro vede nella dialettica caldo/freddo l’asse centrale della sua cosmogonia.  L’alternarsi dei contrari distaccantisi dall’àpeiron è il motore della natura, e il permanere di un contrario, il suo rifiutarsi di cedere il posto all’antagonista, la sua assolutizzazione costituirebbe somma ingiustizia, il tempo “girerebbe a vuoto”. Proprio il tempo è così garante della limitatezza e della rotazione degli esseri, non tanto il tempo nella sua astrattezza concettuale, quanto piuttosto nel suo manifestarsi più tangibile, com’è ad esempio il tempo naturale delle stagioni – non è un caso che Anassimandro si sia occupato di meteorologia, geologia, astronomia, misurazioni. Ciò che si ritaglia un confine, che si dà una determinazione, un nome, un’identità appunto, lo fa sempre a scapito di qualcos’altro, e la sua colpa risiede proprio lì, nell’avere dichiarato guerra a tutte le cose con la semplice nascita e affermazione di sé.
    In questo dramma cosmologico originario, che a parere di Anassimandro costituisce l’essenza e il funzionamento proprio della physis, vi è l’origine prima di tutte le ossessioni identitarie che da secoli ci attanagliano. Col cosmologo di Mileto ha anche inizio quel florilegio di eleganti soluzioni teoriche che vorrebbero conciliare l’inconciliabile, e cioè l’essere e il nulla, l’assoluta stabilità e il divenire caotico, l’intrasmutabile e il vortice dei mutamenti – il tentativo cioè di salvare, in buona sostanza, la capra e i cavoli. Una lettura semplificatrice (e però non peregrina) di tutto ciò, potrebbe anche indurci ad assegnare alla nostra personalissima e psicologicissima paura della morte un ruolo preponderante nel determinare gli esiti di tali affannose ricerche. Come a dire, l’alibi ontologico per nascondere la nostra pochezza e fragilità…
    Ci si potrebbe inoltre chiedere quale sia la relazione tra quel cosmo gelido e “crudele”, impassibile nel suo massacro quotidiano di vite e di enti, tributo all’anànke del suo meccanico funzionamento, e le quotidiane crudeltà dei rapporti intraumani: questi hanno suggerito ad Anassimandro il quadro cosmologico o, viceversa, l’universo riverbera se stesso in ogni suo più piccolo anfratto?
     Sarà infine proprio Nietzsche, il pensatore tragico per antonomasia, a chiedersi, volgendo lo sguardo dalla direzione fisica a quella etica, quale è la causa «di quell’espressione di smorfia dolorosa sul volto della natura, di quel lamento funebre senza fine, in tutti i campi dell’esistenza»; e ancora: chi mai potrà redimerci dalla maledizione del divenire e dalla notte che si fa sempre più fonda?


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MUSEO VIRTUALE
DELLA FONDAZIONE SCUOLA MEDICA SALERNITANA


     Il Museo Virtuale della Scuola Medica Salernitana è stato realizzato dalla Soprintendenza per i BAP di Salerno e Avellino, come trasformazione ed adeguamento allestitivo del precedente Museo Didattico.
     Nel 1993 la Soprintendenza realizzò, in collaborazione con il Centro Studi e Documentazione sulla Scuola Medica Salernitana, il Museo Didattico della Scuola Medica Salernitana ubicato in un'antica chiesa di origini medioevali, San Gregorio, nel centro storico di Salerno, ricevuta in comodato gratuito da parte della parrocchia di San Matteo e della curia di Salerno.


     L'iniziativa prese le mosse da una mostra documentaria sui manoscritti medioevali relativi alle opere dei maestri della celebre scuola, “La scuola Medica Salernitana. Storia, immagini e manoscritti dall’ XI al XIII secolo” organizzata nel 1988 dalla Soprintendenza stessa nell'ambito della valorizzazione della storia e della cultura della città medioevale di cui erano in corso imponenti restauri. Il Catalogo della mostra fu pubblicato da Electa Napoli nello stesso anno.    Nell'intento di non disperdere la gran mole di materiale raccolto in seguito a studi e ricerche nelle principali biblioteche italiane ed europee, si stabilì di realizzare riproduzioni di miniature, documenti e manoscritti e allestire un museo con destinazione assolutamente didattica e divulgativa per conservare in città memoria dell’attività e della produzione scientifica di quella che fu l'istituzione più importante della sua storia. Il piccolo museo diventò negli anni punto di riferimento di studiosi, turisti e pubblico scolastico ai quali veniva offerta un'ampia documentazione ed informazione attraverso filmati, pannelli luminosi, riproduzioni fotografiche e riproduzioni di antichi strumenti chirurgici.


     L’innovazione tecnologica ha reso in poco tempo inadeguate le strumentazioni utilizzate ed è stato pertanto necessario progettare questo nuovo allestimento, che si avvale delle più avanzate tecnologie informatiche ed è in grado di colloquiare in maniera diffusa sia con un pubblico genericamente informato, sia con quello degli specialisti


     Il museo virtuale si pone innanzitutto come progetto di comunicazione con la presentazione in chiave divulgativa della storia, dei protagonisti e dei testi della Scuola Medica, attraverso la sua contestualizzazione nell’ambito storico – artistico in cui si formò ed operò e attraverso percorsi di approfondimento inseriti in un ipermedia specificamente progettato.


     Il Museo Virtuale vuole essere anche il luogo di raccolta delle opere e dei documenti conservati nelle maggiori biblioteche europee per restituire alla città di Salerno la centralità degli studi sulla Scuola Medica Salernitana. Una postazione di approfondimento in continuo incremento, con una biblioteca virtuale e una ricca bibliografia, mette a disposizione del visitatore e dello studioso un’ ampia documentazione di studi e di testi sui temi trattati nel percorso espositivo.

     Percorso espositivo:

     Il fulcro dell’esposizione è rappresentato dal Teatro Virtuale: sistema di visualizzazione stereoscopico che rappresenta la modalità di visione più coinvolgente che attualmente la tecnologia è in grado di fornire, in particolare per la fruizione avanzata nell’ambito dei beni culturali.
L’immersività della fruizione consente un totale coinvolgimento dello spettatore, attraverso il forte impatto sensitivo possibile con un approccio visualizzativo di tipo semi immersivo e interattivo.

• Teatro virtuale: concepito come contenitore di storie, presenta la ricostruzione in 3D della cappella palatina di S. Pietro a Corte, realizzata da Arechi II, fulcro della vita religiosa e civile della città a partire dall’VIII secolo. L’aula ricostruita rappresenta simbolicamente – in una sceneggiatura specificamente ideata - l’avvio di una storia di confluenze culturali che fecero grande la città di Salerno dei secoli delle dominazioni longobarda e normanna, nelle sue espressioni artistiche e scientifiche
• Quaestiones: il visitatore è invitato a porre domande, proprio per riprendere il metodo della scuola che si basava sulle quaestiones, ed è così informato sulle tematiche, sugli autori, sulle influenze culturali e sulle metodiche che caratterizzarono la Scuola Medica Salernitana.
• Regimen Sanitatis - Gli aforismi dell’opera più nota e divulgativa degli insegnamenti dei medici salernitani, sintesi di un antico sapere che affonda le sue radici nella tradizione medica di Galeno ed Ippocrate.
• Materia Medica – L’uso delle erbe nella terapia salernitana: l'uomo è al centro della natura e il suo benessere deriva dal giusto equilibrio con essa: dalla natura deriva ogni rimedio per le sue malattie
• Teatro Virtuale – Il percorso espositivo virtuale ed interattivo si conclude con un’altra storia nel teatro virtuale: la lezione di botanica di Matteo Silvatico
• Ipermedia – Percorsi di approfondimento: le tematiche presentate nel percorso espositivo potranno essere indagate a diversi livelli di approfondimento mediante la consultazione dell’ipermedia, che fornisce ogni indicazione su temi, testi e documenti. Il percorso di approfondimento è arricchito, inoltre, di una biblioteca virtuale.
• Bacheche virtuali, collocate nell’aula laterale del museo, forniscono indicazione, ad un livello di maggiore approfondimento rispetto alle quaestiones interattive, sulle tematiche fondamentali della cultura scientifica salernitana ed anche sulla storia della città.( terapia, dieta, chirurgia, farmacopea…)

     Queste bacheche virtuali danno anche la possibilità di progettare temporanee esposizioni tematiche. (le bacheche virtuali sono in fase di completamento e saranno oggetto di una seconda fase di ampliamento/completamento del museo).  




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Le origini della Croce Rossa
Ferdinando Palasciano


     Durante i moti di Messina del 1848 un medico chirurgo di Capua, Ferdinando Palasciano, giovane ufficiale dell'esercito borbonico, avvertì il dovere morale di prestare le sue cure anche ai feriti nemici nonostante l'ordine tassativo dato dal generale Filangieri di non curare i ribelli siciliani.
     Ciò gli valse la minaccia di essere passato per le armi ma, per intercessione di Re Ferdinando II, suo amico ed sostenitore, la condanna venne tramutata in un anno di carcere da scontare a Reggio Calabria.
     Anche durante la reclusione Palasciano continuò ad assistere i feriti napoletani che i battelli portavano da Messina. Dopo la scarcerazione si interessò ancora ai problemi di sanità militare, lottando con energia affinché venisse riconosciuta la neutralità dei feriti in guerra.
     In occasione del Congresso Internazionale dell'Accademia Pontaniana, svoltosi a Napoli nell'aprile del 1861, esprimendo le sue idee affermò: "Bisognerebbe che tutte le Potenze belligeranti, nella Dichiarazione di guerra, riconoscessero reciprocamente il principio di neutralità dei combattenti feriti per tutto il tempo della loro cura e che adottassero rispettivamente quello dell'aumento illimitato del personale sanitario durante tutto il tempo della guerra". Con questo discorso, che ebbe una vasta eco in tutta Europa e che, tre anni più tardi, sarà alla base della Convenzione di Ginevra, Palasciano proclamò, per la prima volta, uno e forse il più importante dei principi fondamentali della Croce Rossa.